Qualcosa si muove. Chi, oggi, è sotto la soglia dei 60 anni, da quando ne aveva 15, ha sempre sentito parlare di infrastrutture; di collegamenti ferroviari, di stazioni, di assi di collegamento viari. Argomenti che sono diventati un tormentone, il pane quotidiano per intere generazioni di giornalisti. In realtà in certe aree del sud dell’Italia di opere se ne sono viste veramente poche. Anzi, qualcuna già esistente ha ceduto sotto il peso degli anni e della cattiva manutenzione.
Oggi, finalmente, ai confini tra l’Irpinia e la provincia di Benevento è un pullulare di cantieri, di opere che velocemente iniziano a vedere la luce. I mezzi meccanici corrono su e giù, le imprese costruttrici annunciano di formare e assumere migliaia di persone da avviare nel settore della trivellazione. Sì, perché il tunnel tra la valle dell’Ufita e quella del Cervaro non è uno scherzo: ventisette chilometri in galleria; mega trivellatrici lunghe centinaia di metri e larghe tredici che hanno bisogno di essere guidate, manutenute, e coccolate finché non avranno terminato la loro missione. Secondo Ennio Cascetta sul Quotidiano del Sud, l’aumento del Pil nell’area sarebbe pari all’8%. Diversi punti in più rispetto al resto del Paese. Detta così sembrerebbe la “El Dorado” europea. Ma a pochi mesi dall’avvio dei cantieri gli indicatori sociali dicono ancora altro.
Queste aree continuano nella direzione dello spopolamento. Qui sono almeno tre le esperienze economiche contingentali al sistema che hanno fatto gridare al miracolo e sono seminaufragate: le ricostruzioni dai terremoti (1962-1980), i fondi strutturali europei destinati alle aree obiettivo 1 e la costruzione delle infrastrutture. L’esempio è l’Autostrada Napoli – Canosa. Negli anni ’60 del secolo scorso, fu una innovazione che, a conti fatti, non portò i benefici sperati nelle aree attraversate. Finì per essere una sorta di enorme ponte tra le aree metropolitane delle due maggiori città del sud Italia continentale che ha portato, almeno fino ad ora, benefici marginali alle aree attraversate. Qualche beneficio in più c’è stato per i comuni che hanno l’uscita autostradale ma allontanandosi di 10/12 chilometri dai caselli si rischia di sprofondare nel medioevo. In 60 anni la Provincia non è riuscita nemmeno a mettere in campo la pianificazione generale degli assi viari di secondo livello (le strade Provinciali, quelle vere non le mulattiere che ci sono oggi) che avrebbero dovuto collegare velocemente i Comuni al casello. Per le ricostruzioni, basti pensare che per il terremoto dell’Irpinia si stimano 60.000 miliardi di lire che vuol dire, attualizzati, circa 58 miliardi di euro. Anche qui è mancata una vera e propria pianificazione sovracomunale. Ogni comune ha pensato a sé stesso innamorato della logica medioevale del campanile, del borgo arroccato sul cocuzzolo che guarda di traverso i propri vicini.
Perché per la ferrovia dovrebbe essere diverso? Come si stanno muovendo i sindaci? non tanto quelli dei comuni interessati direttamente dal passaggio della strada ferrata, ma quelli più lontani che rischiano di essere tagliati fuori da un’occasione di sviluppo?. Si ha l’impressione che brancolino nel buio, presi di sorpresa da tanta solerzia da parte dello Stato che in pochi mesi ha davvero avviato i lavori. Loro, i sindaci, invece sembrano ancora essere avvolti dal torpore, straniti da una faccenda che sembra essere più grande di loro. Ed infatti lo è. Una infrastruttura così importante non può essere faccenda che riguarda un solo Comune. Intanto si scatena la solita diatriba di campanile tra Grottaminarda ed Ariano che si contendono in “singolar tenzone” il territorio di Santa Sofia dove si sta costruendo la futura stazione Hirpinia. Vuoi vedere che con questo modo di fare la ferrovia farà la stessa fine dell’Autostrada? Condannando chi vive su questi territori a doversi sorbire altri decenni di chiacchiere sullo sviluppo, a vedere devastato il territorio e distrutte dai mezzi dei cantieri quelle poche strade esistenti?. Oggi l’occasione è concreta, ma occorre che tutti gli attori si seggano ad un tavolo e, per la prima volta, mettano da parte sul serio i campanilismi ed inizino a ragionare come una sola area metropolitana moderna altrimenti questi territori bellissimi rischiano l’oblio dal quale affiorare per 300 metri tra Apice e Melito e per tre chilometri nella valle di Santa Sofia per poi sprofondare di nuovo sotto terra. Intanto, la terra, quella sì che si muove.